Poco abituati come sono a essere mandati dietro la lavagna con le orecchie d'asino, i banchieri americani – a quanto riferisce la cronaca – stanno brontolando contro gli stress test inflitti loro dal Tesoro quale condizione per ricevere fondi di salvataggio. Stanno respingendo le restrizioni al compenso dei dirigenti. Però mangia questa minestra o salta dalla finestra. Prima di rialzare la cresta, dovrebbero riflettere sul lungo rapporto di odio e amore tra le banche e il governo americano. Non sarebbe male se guardassero il biglietto da 20 dollari. Proprio qui, nello spazio che separa "Federal" da "Reserve", irrompe la criniera di Andrew Jackson, il presidente più consapevole della propria chioma regale. Oltre a coltivarne il ciuffo quale emblema dello spirito della nuova frontiera e a trattenerne i boccoli con un laccio di pelle d'anguilla, il settimo presidente era anche il nemico giurato della carta moneta e di una banca centrale.
Jackson, che rimase alla Casa Bianca dal 1829 al 1837, era un politico di tipo nuovo nella vita nazionale. Nessuno poteva prenderlo per uno dei gentiluomini con piantagioni in Virginia che avevano occupato la massima carica nei primi anni della Repubblica: era stato un combattente contro gli indiani, la croce degli inglesi e la delizia degli abitanti della frontiera. Ma a fargli salire davvero la mosca al naso era stata la Banca degli Stati Uniti, l'istituzione alla quale era stato concesso il monopolio di stampare denaro. Il «Mostro vuole uccidermi - dichiarò all'apice dello scontro senza quartiere con il suo presidente Nicholas Biddle - ma lo ucciderò io». E Jackson distrusse la Banca degli Stati Uniti. Mise il veto al rinnovo della sua licenza, deciso dal Senato nel 1832, e si ricandidò alla presidenza nella veste di campione del Popolo contro il Mostro.
Il risultato, la fine della regolazione monetaria, era prevedibile: una speculazione sbagliata. Nel marzo 1837, due mesi dopo che Jackson aveva lasciato la carica, era iniziato il secondo disastro finanziario americano (il primo era avvenuto nel 1819). Ne seguì un altro nel 1839, sotto il governo di Martin Van Buren, il successore che Jackson si era scelto. Alla vigilia della guerra civile, il suo desiderio di un decentramento monetario si era realizzato al di là di ogni sua speranza. Nella repubblica circolavano settemila monete diverse, e la contraffazione era epidemica. Ci volle la legge sulla banca di Lincoln, nel 1862, nata dal disperato bisogno di credito sicuro per fare la guerra, per riportare un minimo di ordine nell'anarchia monetaria che Biddle a suo tempo aveva profetizzato.
Come ci ricorda la recente biografia di John Meacham, scritta con eleganza e fin troppo generosa, nella politica americana Jackson era una figura eccezionale sotto molti aspetti: provava un entusiasmo ripugnante per la pulizia etnica dei nativi americani; ignorava i pareri della Corte suprema che gli erano sgraditi, ed era certo di incarnare in versione eroica la democrazia popolare in atto. Corrazzato di egocentrismo, poteva liquidare con un affronto al popolo americano un voto di censura del Congresso (provocato dal suo tentativo di dissanguare la Banca dirottando i depositi del Tesoro alle banche dei singoli Stati). Oltretutto, a rinsaldarne la convinzione che istituzioni simili fossero maledettamente anti-americane, i fautori di una banca centrale – da Alexander Hamilton che creò la prima nel 1791 al nemico Biddle - ammiravano la Banca d'Inghilterra. Non è detto che la sua bancofobia gli sia valsa la rielezione nel 1832, ma è indubbio, con la diffidenza verso la cartamoneta e il sospetto quasi paranoico verso la banca detentrice del monopolio della sua emissione, Jackson sfruttava un'insicurezza diffusa tra gli americani quanto al carattere morale del denaro.
Nell'Ottocento e nel Novecento gli europei e altri stranieri si sono talmente abituati a considerare gli americani alla mercé dell'Onnipotente dollaro da trascurare qualche volta quella vena di schizofrenia nazionale in materia di ricchezza pecuniaria. Per generazioni e generazioni, predicatori, giornalisti e politici della frontiera hanno denunciato con fervore il veleno della cupidigia e le cittadelle della costa orientale governate da Big Money. Da quando attorno al 1790 Thomas Jefferson, il cantore della vita agreste (finché a faticare erano gli schiavi), cercò di convincere George Washington che il piano di Alexander Hamilton per una banca centrale metteva in pericolo le libertà americane, il sospetto verso le banche, centrali in particolare, è stato un detonatore di rado disinnescato.
Per i direttori di Bank of America e di Citibank, fortuna vuole che Barack Obama sia meno allergico di Jackson a ciò che "Old Hickory" (vecchia quercia, il soprannome di Jackson) chiamava con disprezzo "l'aristocrazia del denaro". D'altronde, a quanto ne so, Obama non è rimasto scottato da transazioni cartacee come Jackson. Sul finire del Settecento, per un giovanotto ambizioso della frontiera le vie del successo passavano dalla speculazione fondiaria, dal diritto o dall'esercito, e Jackson le aveva percorse tutte e tre. Nel 1795, aveva trascorso tre settimane a Philadelphia cercando di vendere una proprietà di migliaia di ettari sulla frontiera. Finalmente trovò un acquirente che lo pagò con una cambiale che Jackson usò per comprare rifornimenti ai carri. Poco tempo dopo, i fornitori di queste merci lo informarono che gli toccava saldare lui il conto perché il suo cliente aveva fatto bancarotta. Il debito depresse le prospettive economiche di Jackson a lungo e gli lasciò una diffidenza duratura contro gli strumenti cartacei di scambio.
CONTINUA ...»